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Staminali mesenchimali e cardiotrofina per trattare il cuore colpito da infarto

ALL’ICGEB DI TRIESTE SI STUDIA COME TRATTARE IL CUORE DOPO UN INFARTO DEL MIOCARDIO, ESPLORANDO ANCHE LE POTENZIALITÀ DEI TRAPIANTI DI CELLULE STAMINALI

L’infarto miocardico è oggi la causa più frequente di mortalità numero dei casi di malattia registrati durante un periodo dato in rapporto al numero complessivo delle persone prese in esame nel mondo occidentale. In Italia, nella popolazione compresa tra i 35 e i 74 anni, i decessi causati da una cardiopatia ischemica sono il 12% dei decessi totali, mentre quelli per infarto acuto rappresentano l’8%. Come si tratta un cuore colpito da infarto del miocardio e quali sono i filoni della ricerca scientifica che se ne occupano? Ne abbiamo parlato con Francesca Bortolotti, ricercatrice all’ICGEB (International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology) di Trieste e nuova protagonista della rubrica dedicata alla ricerca scientifica triestina, che ha da poco pubblicato uno studio sul tema sulla rivista Circulation.

Quali sono i limiti attuali nel trattamento dell’infarto del miocardio?

Al momento il grosso problema è che i farmaci a disposizione sono abbastanza vecchi. L’aggiornamento medico ha fatto passi da gigante nell’ambito chirurgico e il paziente viene rivascolarizzato in fretta. Anche i farmaci sono efficaci, ma nessuno è in grado di riparare il danno che avviene dopo l’infarto, quando in breve tempo muoiono le cellule con capacità contrattile, i cardiomiociti. I farmaci sono in grado di limitare l’avanzamento della patologia ma non di curarla: se la cellula muore non possiamo sostituirla, perché normalmente le cellule cardiache di un adulto non si dividono. Dopo la fase acuta il cuore va incontro a una serie di rimodellamenti patologici che portano allo scompenso cardiaco, molto diffuso nella popolazione.

Che direzioni sta prendendo la ricerca di base al riguardo?

Gli approcci nella ricerca di base sono tre: fare in modo che le cellule non muoiano subito dopo il danno, cercare di riattivarne la divisione veicolando vari tipi di molecole terapeutiche (microRNA) o cercare di sostituirle con altre cellule con la stessa funzione. Nel laboratorio di medicina molecolare cerchiamo di approcciare questi tre grandi argomenti, io mi occupo dell’approccio che sfrutta cellule staminali. Cerchiamo di somministrare cellule dall’esterno, per sostituire o supportare il cardiomiocita.

Quali sono gli obiettivi della vostra ricerca e i risultati dello studio che avete pubblicato sulla rivista Circulation?

Finora abbiamo lavorato con le staminali mesenchimali, cellule che hanno un potenziale di rilascio di molecole angiogeniche [che stimolano la formazione di vasi sanguigni] e antiapoptotiche [inibiscono l’apoptosi, la morte cellulare programmata], capaci quindi di ridurre il danno cardiaco. Tutti gli approcci che le riguardano, però, hanno una grossa limitazione: ne viene iniettata una grande quantità ma sono pochissime quelle che rimangono nel tessuto perché l’attecchimento – quello che chiamiamo engraftment – con queste cellule è scarso. E se vengono spazzate via, nel cuore ancor di più perché si contrae, non c’è alcun effetto.

Grazie al nostro studio abbiamo trovato un modo molto particolare e completamente nuovo per testare nuovi geni, in grado di modulare la capacità delle cellule di sopravvivere nel cuore infartuato. Negli ultimi decenni tanti hanno cercato di aumentare la vitalità delle cellule staminali mesenchimali e la capacità protettiva che hanno una volta iniettate, ma usando fattori già noti, ad esempio regolando prima dell’iniezione le proteine antiapoptotiche. Noi invece abbiamo testato decine e decine di geni per vedere quale fosse il migliore, ma senza sapere cosa faceva ciascuno di loro. In laboratorio abbiamo una collezione di tutti i fattori che vengono secreti dalle cellule murine: la nostra idea era usare dei vettori virali adeno associati (AAV) per mettere i geni nelle cellule mesenchimali, in modo che ognuna esprimesse in modo casuale uno di questi fattori. Come risultato ognuna ne avrebbe espresso uno in modo ottimale: ci aspettavamo che, se uno dei fattori avesse fatto qualcosa, la cellula sarebbe riuscita a sopravvivere nel tessuto danneggiato. E così è stato: dopo tre settimane dall’induzione dell’infarto e dalla somministrazione delle cellule siamo andati a vedere quali erano sopravvissute e le abbiamo sequenziate con una tecnica di next generation sequencing.

Così abbiamo identificato la cardiotrofina, che se viene somministrata alle cellule mesenchimali come vettore virale terapeutico – o come proteina ricombinante – aumenta di molto la sopravvivenza delle cellule nel tessuto, fa sì che aderiscano meglio e evitando che muoiano per apoptosi. Così possono continuare a rilasciare fattori cardioprotettivi che permettono di migliorare i parametri ecocardiografici.

Nella vostra ricerca avete usato le cellule staminali mesenchimali. Di cosa si tratta?

Le mesenchimali sono cellule su cui si è dibattuto molto perché all’inizio si pensava fossero capaci di differenziarsi in tanti altri tipi cellulari. In realtà hanno un potenziale multipotente: possono originare il tessuto adiposo, quello cartilagine e quello osso, ad esempio, ma non possono diventare cardiomiociti perché il loro stadio di differenziamento è troppo avanzato. Se prendessimo, ad esempio, le cellule staminali embrionali, quelle potrebbero originare qualsiasi tipo di cellula. Le mesenchimali sono presenti in tanti tessuti, dove hanno funzione di riparazione e supporto. Se utilizzate nel muscolo scheletrico o in quello cardiaco hanno la capacità di rilasciare tante molecole legate alla formazione di vasi sanguigni, capaci di inibire la morte cellulare o di ridurre l’infiammazione. Hanno un effetto paracrino: non sono benefiche perché diventano un altro tipo cellulare, bensì perché rilasciano qualcosa che ha un effetto positivo sul tessuto.

Perché lavorate con fattori secreti?

Nell’ambito clinico ci sono tante proteine che vengono usate come ricombinanti, ad esempio gli ormoni, che agiscono quando vengono messi in circolo e svolgono un’azione esterna alla cellula segnalando qualcosa al suo interno. Abbiamo testato dei geni che corrispondono a proteine con queste funzioni e che per questo potrebbero essere somministrate come fattori ricombinanti – e non come fattori virali – direttamente al paziente.

Quali sono i vostri progetti futuri?

Fin dall’inizio del progetto sapevamo che erano stati sviluppati vari modelli cellulari più vicini all’applicazione pre-clinica rispetto al nostro e per questo ora, nella nuova fase del lavoro, ci siamo spostati su un altro tipo cellulare e con un’idea un po’ diversa. Stiamo collaborando con un gruppo di ricerca americano specializzato nella ricerca su cardiomiociti umani ottenuti dalla differenziazione di cellule staminali pluripotenti indotte. Quando lavorano con queste cellule hanno sempre un grosso problema, ovvero che muoiono rapidamente dopo la somministrazione. Per questo ci hanno chiesto di applicare il nostro modello di ricerca sulle nuove molecole al loro approccio, che è più vicino alla clinica. In questo modo siamo passati a un livello di indagine più avanzato e l’obiettivo è testare più di 1.200 geni diversi per arrivare a identificarne uno o due che possano essere usati come fattore per aumentare la sopravvivenza delle cellule. Non più cellule murine mesenchimali ma cardiomiociti umani.

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